A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all'improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline.
"Siete sane, siete giovani" dicevano "siete ragazze, non avete pensieri, si capisce." Eppure una di loro, quella Tina che era uscita zoppa dall'ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all'allegria.
Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano più cosa dire. Veniva così il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia.
Le notti più belle, si capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l'indomani si poteva dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a lavorare, felice di quel pezzo di strada che l'aspettava. Le altre dicevano: "Se torno tardi, poi ho sonno; se torno tardi, me le suonano". Ma Ginia non era mai stanca, e suo fratello che lavorava di notte, la vedeva soltanto a cena, e di giorno dormiva
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Da La bella estate di CESARE PAVESE 1940
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