sabato 29 giugno 2019
Serie Autori: NATALIA GINZBURG italiana
L'infanzia e la giovinezza di Natalia Ginzburg sono trascorse a Torino, dove il padre Giuseppe Levi era professore d'anatomia all'Università. Nel 1938 sposò Leone Ginzburg, professore di letteratura russa e dirigente della cospirazione antifascista clandestina.
Con lui e coi tre figli visse dal 1940 al 1943 a Pizzoli, in Abruzzo, al confino. Poi a Roma col marito, che arrestato dai tedeschi, morì nel febbraio del 1944 in seguito alle torture.
Nel 1950 sposò Gabriele Baldini, professore di letteratura inglese, morto nel 1969.
Natalia muore a Roma nel 1991.
In merito a uno dei numerosi racconti (Mio marito) scritti tre i 17 e i 22 anni ha lasciato detto: "Lo scrissi nel maggio del 1941, a Pizzoli, paese della campagna abruzzese.
In vita mia non avevo mai abitato in campagna. Avevo soggiornato sì in campagna, ma per villeggiatura. Pizzoli era un luogo di confino, e vi andai quando l'Italia entrò in guerra. Ci rimasi tre anni. Avevamo una casa sulla piazza del paese, e dalle finestre, di là dalla piccola piazza dove c'era una fontana, vedevo orti, colline e pecore. Le donne con gli scialli neri che ci sono nel racconto eran quelle che passavano e ripassavano, in groppa agli asini, lungo i sentieri che salivano alle colline o scendevano, tra le vigne, giù al fiume. Il grido acuto che incitava gli asini echeggiava costantemente su quei sassosi sentieri, grido gutturale e rauco, e mi chiedevo come avevo fatto a vivere per tanti anni senza sapere che esistesse quel grido."
In molti romanzi della Ginzburg c'è una voce di donna che racconta, una voce inconfondibile che stabilisce col mondo esterno un rapporto fatto di curiosità e distacco, compassione e ironia.
Il libro più noto di Natalia ginzburg è Lessico famigliare, publicato nel 1963.
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Così ebbe inizio la mia nuova esistenza.
Mio marito era fuori tutto il giorno. Io mi affaccendavo per la casa, sorvegliavo il pranzo, facevo i dolci e preparavo le marmellate, e mi piaceva anche lavorare nell'orto in compagnia del servo. Bisticciavo con Felicetta, ma col servo andavo d'accordo. Quando ammiccava gettando il ciuffo all'indietro, c'era qualcosa nella sua sana faccia che mi dava allegria.
Passeggiavo a lungo per il paese e discorrevo coi contadini. Li interrogavo, e loro mi interrogavano. Quando rientravo la sera, e sedevo accanto alla stufa di maiolica, mi sentivo sola, provavo nostalgia della zia e di mia sorella, e avrei voluto essere di nuovo con loro.
Ripensavo al tempo in cui mi spogliavo con mia sorella nella nostra camera, ai nostri letti di ferro, al balcone che dava sulla strada ed al quale stavamo tranquillamente affacciate nei giorni di domenica.
Una sera mi venne da piangere. All'improvviso mio marito entrò. Era pallido e molto stanco.
Vide i miei capelli scomposti, le mie guance bagnate di lacrime.
- Che c'è? - mi disse.
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Tratto da Cinque romanzi brevi (Mio marito)
lunedì 24 giugno 2019
Serie Autori: CESARE PAVESE italiano
Nato a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908, cesare Pavese, l'uomo-libro, come egli stesso si definì, fu prima letterato che scrittore e visse in un mondo di libri, l'unico nel quale riuscisse a muoversi liberamente.
Dagli Anni Quaranta conobbe il successo; i riconoscimenti e il sodalizio con Vittorini ne fecero uno dei punti di riferimento di una generazione.
Il 27 agosto del 1950 egli si suicidò in un albergo di Torino e anche il suo dramma contribuì a fissarne il personaggio. Dopo la morte è diventato oggetto di continue interpretazioni: biografia, tesi di laurea, studi critici, traduzioni si sono seguiti come per pochi altri scrittori contemporanei.
Il grosso volume dei suoi Racconti fu pubblicato postumo solo nel 1960. Essi coprono un decennio della già matura attività dello scrittore, dal 1936 al 1946, e vi si colgono fin dall'origine tutti i motivi della narrativa di Pavese: la solitudine di certe figure legate alla terra piemontese d'origine, il contrasto tra città e campagna, le seduzioni decadenti, il mito della fuga e del ritorno, quello di un'America conosciuta solo sui libri, le figure simboliche parallele all'impegno culturale e morale dello scrittore, e personaggi "vinti" nel senso verghiano, che rivelano più la debolezza e la paura che una forza di riscatto, ai quali tuttavia la sconfitta non impedisce di farsi una idea mitica e smisurata della vita.
Nel 1935 Pavese viene arrestato e incarcerato per motivi politici, poi condannato a tre anni di confino.
Tipici della sua opera sono la presenza di due personaggi opposti: la vita come letteratura da un lato, e dall'altro la realtà, quella vita vera che l'autore avrebbe voluto padroneggiare e in cui avrebbe voluto inserirsi, nonostante che nei suoi libri condanni spesso questi personaggi al fallimento.
In opere successive si troveranno passi pervasi da un sentimento religioso che testimoniano la crisi di coscienza attraversata da Pavese in quel periodo, e toccano i temi dell'uomo, della vita e della morte.
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Talvolta leggevo non so che libro del carcere e Lorenzo, che leggere non sapeva, traballava avanti e indietro con quel suo corpo pesante e finiva poi, slacciandosi la cintola, per sfasciarsi sulla branda.
"Si è mai veduto", cominciava, "si è mai veduto leggere un libro come fosse un giornale,? E' una triste compagnia che non vale un bastone da camminar soli. E' roba del governo: li vengono a offrire nel carcere perché servono a loro. Uno che legge, sta tranquillo e tratta bene il superiore: gli fan fare quel che vogliono. La legge scritta è la forza del carcere.
Disgusta vedere un giovanotto qui dentro leccare quei fogli come fosse pagato. Nel carcere non si deve far niente, e lasciar che il tempo passi, Un uomo dritto basta lui a finir la giornata: se ha bisogno di leggere per tenersi compagnia, allora è come le donne che han sempre voglia di qualcuno intorno e, se non hanno nessuno, prendono un gatto".
"Se dite a me Lorenzo", feci una volta, scattando, "dovete sapere che non c'è nulla come un libro per ammazzare il tempo. Occupa meglio che giocare alle carte".
"Paragone d'avvocato", continuava l'altro senza muoversi.
"Per giocare alle carte si sta in compagnia e qualcuno poi paga. E si vede chi è in gamba e chi no. C'è la gara d'astuzia e ci sono le regole. Solamente i pitocchi giocano per risparmiare quella lira: ma è una soddisfazione d'uomo guadagnarsi il bicchiere per forza di scienza. Permettono forse le carte nel carcere? Qui si vede che altro sono le carte, altro i libri".
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Da "Racconti" L'intruso
venerdì 21 giugno 2019
Serie Autori: SAVERIO STRATI italiano
Saverio Strati è nato a Sant'Agata del Bianco (Reggio Calabria) nel 1924.
Terminate le scuole elementari, lavorò come muratore fino a ventun anni. Poi, finita la Seconda Guerra Mondiale, riprese gli studi e si laureò in Lettere all'Università di Messina.
Dal 1958 al 1964 risiede in Svizzera, dopodiché si trasferirà a Firenze dove muore nel 2014. Ha pubblicato 9 romanzi e 3 volumi di racconti, in cui si riflette la pietà per il dolore e la povertà del sottoproletariato meridionale, in particolare le drammatiche condizioni della Calabria contadina dagli anni del fascismo agli anni 90, dallo sfruttamento alla disoccupazione e all'emigrazione.
La struttura lineare dei racconti di strati, spesso nati dalla sua esperienza di vita e scritti in uno stile senza cerimonie, si svolge quasi interamente attraverso un dialogo fitto di battute brevi e taglienti, che attraverso parole e azioni mira a una rappresentazione diretta. I protagonisti sono contadini, spesso ragazzi, spinti da un'ansia di conoscere, immersi nella miseria, sottoposti all'ingiustizia e alla violenza dei ricchi, affannati nella ricerca del lavoro, indifesi di fronte a una società che non li risparmia. Sull'altro piatto della bilancia non restano che le pene della famiglia e i rapporti fra genitori e figli.
I racconti risalgono agli anni tra il 1953 e il 1955, gli anni del neorealismo, quelli in cui parecchi scrittori italiani, da Calvino a Cassola a Moravia, partendo dal neorealismo si preparavano a imboccare nuove vie.
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"Poi cos'è successo?"
"Niente, via. Ho freddo.
Questo porco cielo è sempre coperto di nuvole...Successe che andammo a occupare le terre e morirono tre compagni nostri sparati dalla polizia. Per miracolo non hanno colpito anche me. Eravamo tutto il paese. Anche gli animali avevamo con noi. Non pensavamo a tragedie. tutt'al più possono mettere in galera venti-trenta di noi, pensavamo...Ma spararono. Il maresciallo che ti ho detto sparò per primo; le donne scapparono con i bambini in braccio, gridando.
Anche a noi uomini venne grande paura, specie appena vedemmo in terra uno dei nostri...Ma stentavamo a credere ai nostri occhi. Non era possibile, secondo noi, sparare contro uomini che lavorano. -Siamo venuti per lavorare e non per rubare- gridammo. Fu inutile. -Andate via ladri- ci gridò il capo della polizia. -Ladri, ladri- gridava anche quel brigante del maresciallo, come se fossimo nella sua terra. Ci odiava. Disprezzava i poveri. E dire che era stato anche lui uno straccione pidocchioso... I poveri arricchiti diventano carogne".
Dal racconto Gente in viaggio
mercoledì 19 giugno 2019
Serie Autori: MARIO RIGONI STERN italiano
Mario Rigoni Stern nato ad Asiago nel 1921, morto ad Asiago nel 2008, sergente degli alpini durante la campagna di Russia, nel 1953 raccolse le sue memorie di quell'esperienza nel volume Il sergente nella neve, la più emozionante testimonianza della Seconda guerra mondiale nella letteratura italiana. Travolti dalla sventura della guerra, in essa gli uomini amici e nemici si riconoscono eguali e fratelli. Questo senso di fraternità con gli uomini, ma anche con la natura, scorre in tutti i libri successivi di Rigoni Stern.
Parlando della sua opera, il poeta Andrea Zanzotto ha evocato "un'enigmatica terra della memoria, sempre reinventata e insieme riscoperta... onnicomprensiva e insieme selettiva... costituita da un brusio innumerevole di voci contraddittorie".
Come graffiti lasciati dall'uomo sulle rocce, consumati ed erosi dal tempo, compongono questa terra della memoria, gli inverni coi segni rossi sulla neve del lepre ferito, le primavere coi prati che si riempiono di giallo per la fioritura del tarassaco, le sere di maggio, lunghe nel crepuscolo, le mattine di fine giugno, con l'odore di fieno nell'aria, le ore più calde sul finire di luglio cullate dal brusio delle api, l'autunno col canto di un uccello nel bosco, quando una nebbia leggera sale dalle valli e passano le beccacce, e poi lo spirare del vento e il rombo della valanga o il ritorno dell'emigrante che viene a morire nella propria terra.
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Dopo il 20 di agosto la fabbrica riprese a produrre; gli amici gli raccontavano delle vacanze, del carovita, delle straniere sulle spiagge. Alcuni erano stati nell'Europa dell'Est con una gita organizzata dal Sindacato e gli dicevano di come quelle campagne fossero popolate di selvaggina: passando con il pullman vedevano i fagiani pascolare nelle stoppie, e i voli di starne sulle colline; e caprioli ai margini dei boschi e lepri fuggire dalle siepi lungo le strade.
Ma già queste cose lui le sapeva, tante pubblicazioni venatorie ne parlavano; invece lui desiderava per un mese, una volta nella vita, andare per i boschi della Boemia a cacciare le beccacce; libero e solo con il suo cane; senza orari e obblighi.
Venne anche l'ottobre, salutò i compagni; e nel casellario sopra l'orologio marcatempo, il suo posto rimase vuoto: per venti giorni il suo orario sarebbe stato decisamente un altro.
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Dal racconto Ferie d'ottobre da "Uomini, boschi e api"
venerdì 14 giugno 2019
Serie Autori: DINO BUZZATI italiano
Dino Buzzati, nato a Belluno nel 1906, spentosi a Milano nel 1972, era stato assunto come cronista nel 1928 al "Corriere della Sera", dove era rimasto con incarichi diversi tutta la vita, redattore, inviato speciale, titolare della critica d'arte negli ultimi anni. Del 1933 è il suo primo libro, Bàrnabo delle montagne, di ambiente alpino, con una suggestione fiabesca del paesaggio e col suo primo personaggio veramente originale: una cornacchia.
Il deserto dei Tartari (1940), tradotto in molte lingue, portò l'autore a un completo successo di critica e pubblico.
Da allora a proposito dei suoi libri la critica ha spesso ricordato due tappe salienti della cultura europea, il surrealismo e il pessimismo kafkiano. Si può rispondere con le parole stesse di Buzzati dopo una visita alla casa di Kafka a Praga: "Dicono che sono io a imitare Kafka. E' la vita invece, direi".
In realtà il mondo di Buzzati è un mondo fra il realistico e lo stregonesco, nel quale l'assurdo spazia per tutto il campo, dal quotidiano più gentile al fantascentifico più macchinoso.
L'autore vi insegue il tema della solitudine, i miti dell'attesa e della rinunzia, scava e propone simboli, che però non prevalgono mai completamente sulla realtà. Tutto è detto chiaro, tutto è esatto, ma al tempo stesso tutto è irreale e sognato e l'autore, sospinto dal fluire implacabile del tempo, si arresta sull'orlo del precipizio e alza gli occhi al cielo.
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Nel casamento ormai non restava che la Gilda con la bambina. Probabilmente stava preparando la cena perché dal camino usciva un sottile filo di fumo.
Intorno alla casa i reparti del 7° reggimento corazzato formavano un ampio anello, mentre scendeva la sera. La Gilda si affacciò alla finestra e gridò qualche cosa. Un carro armato pesante cominciò a sobbalzare poi si rovesciò di schianto. Un secondo, un terzo, un quarto. Una forza misteriosa li sballottava qua e là come giocattoli di latta finché restavano immobili nelle più strane posture, completamente sconquassati.
Fu decretato lo stato d'assedio, intervennero le forze dell'O.N.U.. La zona circostante della città fu evacuata per ampio raggio. All'alba cominciò il bombardamento.
Affacciate al balcone, la Gilda e la bambina assistevano tranquille allo spettacolo. Non si sa come nessuna delle granate riusciva a raggiungere la casa.
Esplodevano tutte a mezz'aria, tre quattrocento metri prima.
Poi rientrò perché Antonella, spaventata dal suono delle esplosioni, si era messa a piangere.
L'avrebbero presa con la fame e con la sete. La conduttura dell'acqua fu tagliata. Ma ogni mattina e ogni sera il camino emetteva il suo fiato di fumo, segno che la Gilda stava cucinando.
I generalissimi decisero l'attacco all'ora X.
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Da Il colombre "L'uovo"
mercoledì 12 giugno 2019
Serie Autori: ALDO PALAZZESCHI italiano
Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Giurlani) nacque a Firenze nel 1885, morì a Roma nel 1974.
Dopo aver esordito come poeta crepuscolare, aderì al futurismo e fece da intermediario tra i futuristi e Papini e Soffici. Uscito dal futurismo, iniziò un periodo realistico, che culminò nei romanzi, sopratutto Le sorelle Materassi (1934), il più celebre. Intanto aveva soggiornato più volte a Parigi, prima con Boccioni e Carrà, poi con De Pisis.
Doveva più tardi, in clima neoavanguardistico, riprendere con foga giovanile, rinnovandoli dall'interno, i modi e il linguaggio delle sue opere di gioventù (si veda, ad esempio, il romanzo Il Doge, 1967)
Nel volume Il palio dei buffi del 1936, movendo da un bozzettismo toscano, ottocentesco e realistico, i racconti giungono a una leggerezza da opera buffa, dove il realismo si mescola con la gioia di un surrealismo colmo di pietà e di carità verso dei personaggi a mezzo tra una vita fantastica e le tristezze dell'esistenza comune.
Secondo una premessa di Palazzeschi "buffi son tutti coloro che per qualche caratteristica, naturale divergenza e di varia natura, si dibattono in un disagio fra la generale comunità umana; disagio che assume ad un tempo aspetti di accesa comicità e di cupa tristezza".
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Intorno le mescite e i caffè esplodono con luci calde e dense da frutti tropicali dentro le serre, lasciando trasparire dai vetri appannati solo delle ombre nere.
E le insegne luminose sopra le porte battute dall'acqua stanno come diademi di regine da circo equestre. Una di quelle porte si apre appena e si richiude, ne sguscia un uomo che guizza lungo il muro sotto i tetti con salti da pesce. Anche i portici che da un lato fiancheggiano la piazza, sono deserti: rari e frettolosi i passanti, rifugio di pochi.
Poggiato a una colonna con la testa riversa, le mani abbandonate e i baffi spioventi da cinese sotto la tesa di un cappello oscuro e informe cadutogli fin sul naso, un vecchio sta nell'atteggiamento di offrirsi implorando al passante, o al vuoto, o alla luce calda che lo inonda dal vetro della mescita in fronte. Porta una mantellina grigio verde logora e sporca sopra il pastrano da artigliere pure in brandelli; le scarpe da fante, sfondate e mezze, ne lasciano trasparire la pelle. Vicino ha un sacco che si capisce essere la casa e ogni bene. Di tanto in tanto emette suoni inafferrabili: è ebbro e felice.
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Tratto da Carburo e Birchio di "Tutte le novelle"
giovedì 6 giugno 2019
Serie Autori: MASSIMO BONTEMPELLI italiano
Massimo Bontempelli (Como 1879 - Roma 1960) rispecchia i gusti e le mode letterarie italiane del primo quarantennio del secolo, dalle liriche carducciane al futurismo e alle avanguardie, dal pirandellismo al novecentismo di cui si fece banditore, abbandonando ogni legame con la tradizione ottocentesca, al "realismo magico", riconducibile alla grande pittura del Quattrocento (Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca).
Attraverso queste conversioni, la costante dell'opera di Bontempelli è l'amore per la logica, per il sofisma, per l'intelligenza rigorosamente razionale che, sul filo d'una prosa limpida e di uno stile smagliante, radicati nei classici, genera una sorta di realismo concreto, eppure quasi surreale, "magico", ai confini tra la realtà e il sogno.
Negli apparenti funambolismi, di alcuni scritti, è la ricerca e la scoperta del fiabesco nella vita quotidiana. Ma questo mondo, sottratto al naturalismo come alle avanguardie, teso verso la chiarezza, trasfigurato dall'intelligenza, emana una freddezza che non lascia convinti del tutto.
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Io non ho mai avuto una vera inclinazione per l'omicidio. Non ho ucciso finora che il mio amico Amilcare, ma anche ripensandoci dopo tanto tempo, mi pare che non sia stata una cattiva idea. Questo avvenne molti anni fa, nella città di Casablanca.
A Casablanca ero andato per una delusione d'amore, inflittami da un americana che avevo accompagnato dall'Europa in Asia, e qui mi aveva piantato.
Avendo perciò preso naturalmente a odiare l'Europa, l'Asia e l'America - e data la lontananza dell'Oceania - avevo stabilito di passare qualche tempo in Africa. Ecco perché mi trovai a Casablanca, che, come molti sanno, è per l'appunto in Africa, sull'Atlantico.
A Casablanca c'erano molti operai italiani che lavoravano di giorno, molte cortigianette provenzali che lavoravano di notte, e molti franchi francesi.
Io per placare meglio lo spirito inacerbito, passavo la giornata chiuso in camera a scrivere la vita di Ruggero Borghi su documenti che avevo raccolti nei miei viaggi. La sera andavo a prendere un pudico mazagran in qualcuno dei duecento tabarini che fiorivano in quella nobile colonia. In uno di questi feci conoscenza, anzi strinsi amicizia, con un uomo modesto e appassionato che si chiamava Amilcare.
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Da Io in Africa tratto da "Racconti e romanzi"
martedì 4 giugno 2019
Serie Autori: GRAZIA DELEDDA italiana
Grazia Deledda nacque a Nuoro nel 1871, da famiglia benestante.
Frequentò regolarmente solo le scuole elementari: in seguito si abbandonò a un fiume di letture che mischiavano Dumas e Balzac, Byron e Hugo, Eugène Sue e Walter Scott a Carolina Invernizo, alimentando la precoce vocazione a narrare con un disordinato romanticismo e coi forti contrasti attraverso i quali la sua fantasia filtrava la cruda realtà di una delle più remote province italiane in una evocazione visionaria e sognante.
Nel 1886 pubblicò la prima novella su un giornale di Nuoro; negli anni successivi disciplinò il fervore melodrammatico sotto l'influsso della narrativa verista e del Verga.
Nel 1896 La via del mare ottenne il plauso di Luigi Capuana, il maggior teorico del verismo italiano, e la fama della Deledda cominciò a diffondersi fuori dalla Sardegna.
Grazia Deledda lasciò Nuoro per la prima volta nel 1899; a Cagliari conobbe l'uomo che sposò nel gennaio dell'anno successivo e col quale si stabilì a Roma. Qui vivendo in un tranquillo raccoglimento, acquistò una maggiore compostezza narrativa e precisò le proprie inclinazioni.
Nel 1926 le fu assegnato il premio NOBEL, il primo a un italiano dopo il Carducci (1906).
Morì a Roma nel 1936.
"Ma oggi... oggi...".
Era deciso a tutto: a fuggire, a rompere le tegole dell'abbaino, a correre sui tetti, a volare.
Ritto sulla cassa s'infilò i calzoncini facendo orribili smorfie e mostrando la lingua alla borsa dei libri e al calamaio pronti lì sul tavolo sotto l'abbaino: la bestemmie più atroci che sentiva pronunziare dagli uomini ubriachi nelle sere di festa gli gonfiavano la gola; ma non le ripeteva a voce alta perché era peccato mortale, e lui odiava la borsa e voleva divertirsi, quel giovedì, ma non andare all'inferno.
Un salto, uno scossone, ed ecco i calzoncini fin sotto le ascelle: e non occorrono le tirelle né i bottoni; basta una cordicella, una bella cordicella solida che è sempre bene avere oltre che per tenere su i calzoncini per essere provveduti di tutto quando si vuole andare a divertirsi. Se per esempio, si dovrà fare un laccio per la martora, o per la donnola in mancanza di meglio? Una cordicella è sempre buona a qualche cosa; e così pure un fiammifero, un batuffolo di carta, qualche bottone, qualche chiodo, il rocchetto del filo rubato dal panierino del cucito della zia: tutte cose che Minnai trae dalle saccocce gonfie dei calzoncini ed esamina e ripone accuratamente.
Ecco fatto. E la giacca? Dov'è la giacca? Cerca, cerca, la giacca non si trova, né dentro né fuori la cassa, né sotto il letto né in cucina. La zia l'ha nascosta: e tutto è chiuso, titto è buio. sembra la casa dei morti, col fuoco spento, la porta chiusa, il latte freddo e pallido nella scodella triste sopra il forno col pane accanto.
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Dal racconto "La martora"
lunedì 3 giugno 2019
Luca Martinalli e la sua poesia
Vi siete persi la bella chiacchierata col poeta Luca Martinalli???
Peccato! Davvero un peccato, perché è stata: ricca di bellissime poesie, di curiosità, di sentimento svelato.
Per darvene una prova (un assaggio di ciò che vi siete persi) vi trascriverò una sua poesia. La mia scelta è questa (influenzata dalla data?2 giugno?)
Peccato! Davvero un peccato, perché è stata: ricca di bellissime poesie, di curiosità, di sentimento svelato.
Per darvene una prova (un assaggio di ciò che vi siete persi) vi trascriverò una sua poesia. La mia scelta è questa (influenzata dalla data?2 giugno?)
PER UNA TERRA LIBERA
Ho difeso i miei valori fino al cappio del patibolo,
giustiziato per diletto di maiali da postribolo.
Stremato dalla fame ho scavato la mia fossa
implorando nel silenzio dell'orgoglio
raffica di piombo che bruciasse le mie ossa.
Nessun rimpianto, nessuna abiura;
ho puntato dritti gli occhi nel mirino del plotone
con l'ultimo mio canto partigiano a sfidar l'esecuzione.
Sul suolo tricolore il mio sangue raggrumato si è unito a quello d'altri.
In terra resta fredda una carcassa crivellata,
in cielo sale caldo l'alito di un'anima inviolata.
Per una terra libera.
LUCA MARTINALLI
domenica 2 giugno 2019
LUCA MARTINALLI www.mantovanotizie.com
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